Memorie dal nulla – Seconda parte. La tentazione di vivere – IX

L’iniziale ubriacatura emotiva era svanita, lasciando spazio alla lucidità, alla razionalità. Ripensavo alle inedite sensazioni provate la mattina, all’attesa, all’eccitazione, alla paura, alla spensieratezza, al desiderio e poi all’abbraccio con Veronica, alla sua carezza, alle sue parole e a quelle di Pietro al termine della cerimonia, parole misteriose che mi tormentavano. Forse Veronica gli aveva annunciato qualcosa, qualcosa di incredibile, che avrebbe rivoluzionato le nostre esistenze? O forse erano solamente il frutto dell’entusiasmo sfrenato dello sposo, che desiderava per me una felicità pari alla sua? Alle parole di Pietro legavo quelle di Veronica, che mi esortava, ancora una volta, l’ennesima, a lasciarmi andare. Lo aveva fatto molte volte durante la nostra corrispondenza, ma ripetere questa esortazione di persona, mentre ci trovavamo uno di fronte l’altra, assumeva un significato diverso, per certi versi rischioso. Se l’avessi baciata, come desideravo con tutto me stesso, come un tempo desideravo di avere successo, pronto a vendere l’anima al diavolo pur di raggiungere il mio scopo, cosa avrebbe potuto rimproverarmi? Avrei semplicemente fatto ciò che mi sentivo di fare, mi sarei lasciato andare. In un certo senso era stata lei stessa ad autorizzarmi a baciarla, no?
Mi lasciai volontariamente affascinare dall’ipotesi più fantasiosa, più inverosimile e ci giocai per gran parte del ricevimento. Nonostante non potesse permetterselo, Veronica si era innamorata di me e aveva deciso d’iniziare una nuova vita al mio fianco, lasciando il marito. Veronica mi dichiarava il suo amore, mi baciava con ardore, mi definiva l’uomo della sua vita e anche se ci eravamo incontrati troppo tardi, c’era ancora tempo per rimediare e scrivere la nostra storia. Io reagivo inginocchiandomi ai suoi piedi, baciandoglieli e giurandole amore eterno. Ero perfettamente consapevole dell’assurdità e della ridicolaggine di questa ipotesi, ma non la scacciavo dalla mia testa. In fondo, era l’unico appiglio che avevo a disposizione.
Fantasticavo, giocavo con la mia immaginazione e mi guardavo intorno. I miei occhi si posavano regolarmente su Veronica e quando i nostri sguardi si incontravano, aprendosi un varco tra la selva degli invitati, sorridevamo entrambi. Erano sorrisi lunghi, prolungati e carezzevoli, privi di imbarazzo. Veronica, con la sua presenza, mi faceva sentire giovane. Invecchiato con una precocità spaventosa, che iniziava a manifestarsi anche sul mio volto, in quegli istanti vivevo una sorta di giovinezza postuma, che mi infondeva nuova energia e vitalità. Era una sensazione fisica, non solo cerebrale. Abituato a trascorrere le giornate tra le quattro pareti della mia stanza, in una reclusione volontaria che durava ormai da tre anni, il capo chino sulla scrivania, accartocciato sulla sedia, tutto compresso nelle mie facoltà mentali, sentivo ora il mio corpo sciogliersi, farsi elastico e il sangue nelle vene fluire con maggiore facilità.
Come mio solito, non partecipavo alla festa, la subivo, inerme e infastidito da tanta insensata opulenza, ma la presenza di Veronica non la rendeva una lenta e noiosa agonia. Gli invitanti, chiassosi e ruminanti, erano concentrati, assorbiti nell’attimo presente, nell’euforia effimera del momento, mentre io mi proiettavo all’avvenire, che finalmente tornava ad acquistare un senso. Il tempo stesso tornava ad avere significato e valore, non svaniva insensato nel nulla, ma procedeva verso una meta attesa e dolcissima.
Osservavo Veronica ballare al centro della sala, i capelli ondeggianti, le gote arrossate. Davanti ai miei occhi danzava la vita ed era uno spettacolo incredibile. Io restavo seduto, immobile, pietrificato sulla sedia, bevendo di tanto in tanto un sorso di vino, ed ero la sua antitesi. Avrei voluto raggiungerla, stringerla a me e baciarla, davanti a tutti, ma non potevo farlo. La vita era lì, danzava a pochi passi da me, ma non potevo afferrarla, non potevo farla mia. Sarebbe rimasta per sempre qualcosa di diverso da me, altro-da-me. Questo pensiero mi rattristò di colpo, e nel profondo, a tal punto che la vista di Veronica mi divenne insostenibile. Mi alzai e andai fuori, a fumare una sigaretta.
A quel pensiero negativo ne seguirono molti altri, che mi avvelenarono l’umore. Avevo deciso di dire addio a Veronica, non intendevo affatto cambiare idea, dunque che senso aveva passare la serata insieme? Non sarebbe stato più giusto, coerente e semplice interrompere il nostro rapporto qui e ora, senza illudersi e rischiare di trasformare il nostro incontro in una lenta e dolorosa agonia? Se mi fossi comportato in questo modo, se avessi rifiutato il suo dono Veronica, probabilmente, si sarebbe offesa, inoltre le avrei rovinato la giornata e questo mi dispiaceva, perché significava lasciarle un pessimo ricordo del nostro primo e ultimo incontro. Che fare?
Naufragavo tra questi interrogativi, tra questi dubbi, quando mi raggiunse Veronica, ancora accaldata e arrossata per la danza.
– Ti sei rabbuiato di nuovo, me ne sono accorta, – disse sedendomi accanto.
– Come hai fatto ad accorgertene?
– Mi sembra di averti visto innumerevoli altre volte. Ti capisco al volo, purtroppo per te, mi basta uno sguardo.
– Sono così trasparente?
– Non credo si tratti di trasparenza in generale. Dopo otto mesi di corrispondenza ti conoscevo già abbastanza bene e sono bastati pochi minuti in tua compagnia per comprenderti totalmente. Questo dimostra come sia fortemente empatico il nostro rapporto. Sai cosa ho letto in treno, venendo a Roma?
– Cosa?
– La nostra corrispondenza. Non lo avevo mai fatto prima d’ora, ne avevo paura, ma il pensiero di vederti mi ha dato forza. C’è molto, moltissimo in quelle mail, persino troppo. In alcuni punti, te lo confesso, è stata una lettura dolorosa.
– Abbiamo scritto pagine importanti e non solo per noi due, ma per molti altri, ne sono certo. Se penso a tutto ciò che ho scritto, il nostro carteggio è senza dubbio il testo a cui tengo di più, ed è quello che ha maggior valore, non solo affettivo, ma… letterario. Non c’è niente di artefatto, di premeditato, le nostre vite vi scorrono libere, autentiche. Credo che si tratti di una preziosa testimonianza umana e non ti ringrazierò mai abbastanza per avermi inviato quella prima mail.
– Dovresti avere più fiducia in te stesso e nei tuoi testi, e dovresti ringraziare innanzitutto Pietro, perché è stato lui a convincermi, lo sai. Certo, non potevo immaginare che inviandoti quella mail avremmo instaurato un rapporto così intimo e profondo. È stato sconvolgente.
– Perché eri così titubante? Cosa ti frenava?
– La paura, Giosuè. Avevo paura di fare i conti con quella parte di me che avevo represso e che ritrovavo nei tuoi testi.
– Prima o poi doveva accadere. Non c’è niente nella vita di un uomo che vada perduto per sempre.
– Sì, e sono felice che tu mi abbia guidata in questo processo di riscoperta di me stessa. Ora mi sento più matura, consapevole e coraggiosa. È iniziata una nuova fase della mia vita e senza di te non sarebbe stato possibile. Grazie.
Veronica appoggiò la testa sulla mia spalla e io le baciai i capelli.
– Ora sono io a doverti far vedere una cosa, – disse, mostrandomi il polso sinistro, attraversato da una lunga cicatrice verticale. La ferita doveva essere stata profonda ed erano vistosi i segni dei punti di sutura. Compresi tutto e provai un tuffo al cuore.
– Perché non me ne hai mai parlato? – domandai baciandole la cicatrice e prendendole la mano.
– Sarebbe stato troppo difficile e doloroso parlartene per iscritto, senza poter contare sulla tua presenza. Avevo diciannove anni, la scuola era finita, per sempre, e non vedevo un futuro davanti a me. Ero divorata e terrorizzata dall’incertezza, mi sentivo la creatura più sola, inadeguata e insignificante di questo pianeta. Non riuscivo a evadere da me stessa, dalla mia piccolezza. Non c’era un posto nel mondo per me, non lo vedevo, ero in balia delle circostanze e fragile, priva di protezioni, sentivo tutto in modo amplificato, ogni piccolo evento negativo, ogni sciocchezza assumeva la portata devastante di una tragedia irrimediabile. Rompevo un piatto, oppure graffiavo la macchina di mia madre e in queste stupidaggini vedevo dalle manifestazioni chiare della mia incapacità, della mia inettitudine. Sì, mi sentivo inetta a tutto. Il peso delle aspettative mi schiacciava, mi soffocava e l’incapacità di esserne all’altezza mi rodeva nel profondo, mi sgretolava dall’interno, come un tarlo insaziabile. Il risveglio era un dramma, alzarsi dal letto un’impresa e procedevo solo ed esclusivamente per inerzia, incapace di distrarmi e di sorridere. Tutto ciò che mi stava intorno era spento, grigio, smorto, insignificante, perché io stessa ero spenta, grigia, smorta, insignificante, vuota in una sola parola. Naufragavo nell’apatia senza provare a opporre resistenza. Ero un ramo secco pronto a spezzarsi alla prima folata di vento. Il fatto che respirassi, che mangiassi, che camminassi non significava che fossi viva. Per giorni interi mi trinceravo in un silenzio assoluto e non volevo vedere nessuno. Avevo persino smesso di leggere, io che non posso fare a meno dei libri da quando sono una bambina. Così decisi di scomparire, di porre fine a questa agonia, per sempre, ma…
Veronica si interruppe e sospirò profondamente. Le pesava tornare con la memoria a quel periodo buio della sua vita e io mi sentii in dovere di rassicurarla.
– Forse è meglio cambiare discorso. Non voglio vederti triste e pensierosa, non oggi, – dissi baciandole i capelli.
– Tranquillo, Giosuè, è giusto che tu sappia, anche perché il peggio è passato. Fu la paura a salvarmi, una paura indescrivibile, mai provata prima, che mi costrinse a tornare sui miei passi. Da quel giorno ho iniziato a ricostruirmi, poco a poco, ora dopo ora, grazie all’aiuto fondamentale di mia madre e di mia nonna, le due persone più importanti della mia vita. I tuoi testi mi hanno catapultata di nuovo in quel periodo terribile, tutto ciò che mi ero sforzata di nascondere tornava a tormentarmi, di colpo, senza che avessi avuto il modo di prepararmi, e avevo paura che mi travolgesse, distruggendo tutto ciò che avevo costruito con enorme fatica, ma tu hai saputo proteggermi e guidarmi. Grazie a te sono una persona migliore ora, una persona nuova, completa, nata dalla sintesi tra ciò che ero a diciannove anni e ciò che sono ora, una madre e…
Una moglie, ma Veronica non terminò la frase.
– Scusami, non dovrei essere così audace e irrispettoso, – dissi liberando la sua mano dalla mia.
Per quanto fugace, l’accenno alla sua famiglia, al suo matrimonio mi aveva imbarazzato profondamente. Mi sentii un intruso e provai un fortissimo senso di colpa per quei contatti illeciti. Pensai a suo marito, a sua figlia, al suo lavoro, alla sua vita, che niente, niente avevano a che fare con me e decisi di dirle addio in quel momento.
– Non fare così, Giosuè, non mi manchi di rispetto dimostrandomi il tuo affetto, – tentò di rincuorarmi Veronica, sorridendo. Ma la parola affetto mi ferì.
– Il problema è che nei tuoi confronti non provo solo affetto e lo sai, – dissi alzandomi e facendo qualche passo. – Ma in fondo è giusto così, – aggiunsi con un tono di voce arreso e quella maledetta aria da cane bastonato che in simili circostanze proprio non riesco a scrollarmi di dosso.
– Lo vedi che sono capace di offenderti? – disse Veronica sorridendo, alzandosi e avvicinandosi a me. – Lo so che mi ami, Giosuè, come non mi ha mai amata nessuno, e ti sono riconoscente per questo, dal profondo del cuore, credimi. In questi mesi mi hai fatto sentire importante, molto più importante di quanto in realtà io sia. Mi hai fatto sentire persino necessaria, e non solo per Elisabetta… Mi sono sentita apprezzata come mai prima e in ogni mail è come se tu mi dicessi: vai bene, Veronica, non c’è niente di sbagliato in te. Mi hai regalato quella stima di cui ho un disperato bisogno e che cerco costantemente, in ogni mia azione, a lavoro come a casa. Non immagini quante volte mi sia domandata cosa sarebbe accaduto se ci fossimo incontrati in circostanze diverse… Forse oggi sarei una persona migliore. Tu meriti di essere amato, Giosuè, meriti che una donna, con il suo amore e la sua devozione, liberi la parte migliore di te, che esiste, resiste, forse a tua insaputa, e che ho avuto la fortuna di conoscere.
Stimolato dalle parole di Veronica, decisi di lasciarmi andare, di mettere da parte la diplomazia, le mezze parole, il senso di colpa e dire ciò che pensavo, senza paura.
– Solo tu avresti potuto farlo. Ho donato a te la mia parte migliore, lo sai, ora ti appartiene. La mia vita si conclude definitivamente con la tua conoscenza, si esaurisce qui. Se ancora esisteva una piccola, piccolissima speranza di resurrezione, è andata in frantumi per sempre conoscendoti. Una volta dissi a Pietro che forse sarebbe stato meglio se non ti avesse convinta a scrivermi. Ora, sapendo quanto la nostra corrispondenza sia stata importante per te, per la tua crescita, rinnego queste parole, ma non posso nasconderti che anche in questo momento, insieme alla gioia di esserti accanto, provo una profonda mestizia. In questi mesi è stato un piacere e insieme una tortura parlare con te, e in questo momento è lo stesso. Quante volte ho avuto il desiderio irrefrenabile di salire sul primo Frecciarossa diretto a Milano e raggiungerti… Lo desideravo fino all’ossessione, fino alla malattia, ma non potevo farlo. Ora, inoltre, ho il desiderio irresistibile di… di… Beh, non c’è bisogno che te lo dica, puoi immaginarlo facilmente, ma non posso fare neanche questo, anzi, soprattutto questo. La verità è che sono un intruso e che devo dirti addio, e farlo entro oggi. Il nostro primo incontro deve essere anche l’ultimo. Deve, perché stando così le cose non vedo alternative. Sarebbe insopportabile, dopo averti incontrata, dopo averti ammirata, ascoltata, toccata, tornare a un semplice rapporto epistolare, e questa volta in una modalità definitiva, permanente, senza la possibilità di un nuovo incontro all’orizzonte.
– Ti capisco, Giosuè, davvero. Ti trovi in una situazione scomoda e sapevo che prima o poi mi avresti detto queste parole. Anzi, conoscendoti, mi ha sorpreso il fatto che tu non abbia ancora interrotto il nostro rapporto. Forse, se non fosse stato per il matrimonio di Pietro, lo avresti già fatto. Se vuoi possiamo separarci ora e cancellare la nostra serata, – disse Veronica abbassando la voce e lo sguardo.
– No, voglio passare con te quanto più tempo possibile, non posso rinunciare a questa fortuna, sarebbe da pazzi, – risposi ribellandomi finalmente a me stesso, o almeno alla parte peggiore di me stesso. – E che d’ora in avanti non si parli più di queste cose, – aggiunsi come se fosse Veronica a volermi dire addio.
Rientrammo nel locale e tentai in tutti i modi di distrarmi, di non pensare troppo a Veronica, abbandonandomi agli amici, alticci e spensierati, discutendo con loro di qualunque cosa, accomodandomi al tavolo degli sposi e regalando loro parole appassionate, dedicate alla vita coniugale e alla creatura che Sara portava in grembo. Insomma, mi sforzavo di partecipare alla festa e non solo di subirla, con lo scopo di anestetizzare almeno per qualche ora la mia mente problematica e autodistruttiva, affinché potessi poi godere della presenza di Veronica senza rischiare di rovinare tutto prima del tempo. Lei vigilava su di me con il suo sguardo, costantemente. Dovevo dirle addio, d’accordo, era tutto deciso e non sarei mai tornato indietro, ma avevamo un’intera serata a nostra disposizione prima che questo accadesse, prima che ci perdessimo di vista per sempre e tutto ricominciasse come se non fosse accaduto nulla, e giurai a me stesso che se avessi avuto di nuovo la tentazione di baciarla mi sarei lasciato andare. Lei avrebbe compreso e perdonato.
Finalmente giunse il momento di andare. Salutammo Pietro, Sara e ci avviammo verso la macchina. Ero sollevato ed eccitato dall’idea di potermi dedicare completamente a Veronica, senza dover pensare ad altro e al riparo da occhi indiscreti: il nostro vero incontro iniziava ora.
– Quando e come hai scoperto di avere il dono della scrittura? – mi domandò Veronica non appena partimmo. Era stanca, si era tolta le scarpe e aveva abbassato leggermente il sedile. Guardava me, non la strada, e mi faceva quasi rabbia non poter fare lo stesso.
– Ho iniziato a leggere e scrivere piuttosto tardi, intorno ai sedici anni. La scrittura è stata una conseguenza immediata, naturale della lettura: sono sempre stato incapace di accontentarmi, in qualunque campo, così, scoperta la letteratura, sin da subito mi sono rifiutato di essere un semplice lettore e ho tentato di impormi come scrittore. Volevo stupire e non solo stupirmi, volevo creare e non solo recepire. Anch’io all’inizio credevo che la scrittura fosse un dono e una vocazione, ma con il tempo e sulla mia pelle ho capito che si tratta di una maledizione e di un vizio. Chi sostiene che la scrittura sia un’attività pacifica e conciliante o è un bugiardo o uno scrittore da quattro soldi, non ci sono alternative. La scrittura è una lotta quotidiana e sanguinosa con se stessi e con il mondo intero, ti costringe a rovistare dentro di te e riportare alla luce tutta la spazzatura accumulata negli anni.
– Dai tuoi testi questo aspetto di scrittura come lotta emerge chiaramente e lo trovo affascinante. Ogni singola frase porta i segni, direi quasi le stigmate di questa lotta, della fatica, dello sforzo, persino del sangue, eppure mantiene sempre un certo contegno, una certa eleganza. Scrivi ogni singola parola come se fosse l’ultima. Nella scrittura sei definitivo come nel pensiero ed è questa la forza dei tuoi testi. Ogni parola si imprime nella mente del lettore, come marchiata a fuoco.
Pieno di soddisfazione e gratitudine per queste sue parole, mi voltai verso Veronica e le sorrisi. Era un miracolo che riuscissi a restare concentrato sulla strada.
– Inoltre, – continuò Veronica, – credo che tu abbia un vero talento nel rappresentare i personaggi per quello che davvero sono, di rivelarne l’essenza più profonda, di denudarli, e il bello è che non ti servono troppe parole per farlo, ma a volte ti basta un gesto, un momento, che lì per lì può sembrare insignificante, ma che invece ha un’importanza straordinaria. Magari si procede oltre, ma dopo poche righe si accende una lampadina che rivela l’importanza di quel dettaglio e si torna indietro, per rileggerlo e comprenderlo e apprezzarlo appieno. Naturalmente il mio è un parere da profana, privo di valore e forse persino sciocco. Forse ti sto dicendo solo stupidaggini.
– Ma quali stupidaggini, – protestai con forza, – un critico non avrebbe saputo fare osservazioni più giuste e acute. Toglimi una curiosità: quale sensazione resta dopo aver letto i miei testi?
– Resta una sensazione di profonda desolazione, come se il mondo intero si trasformasse in uno sterminato, immenso cimitero. Conoscendoti, credo che tu possa ritenerti soddisfatto.
– Sì. Vedi, lo scopo dei miei testi, di tutti i miei testi, anche quelli critici, è rivelare all’uomo la sua miseria, la sua inutilità, la sua insignificanza, la sua insensatezza. Lo faccio perché credo, e lo credo nel profondo, che se tutti fossero consapevoli di questo, della loro condizione irrimediabilmente miserevole, il mondo diventerebbe un posto migliore: liberi da menzogne, illusioni, pregiudizi e luoghi comuni di ogni genere, politici e religiosi, gli uomini la smetterebbero finalmente e una volta per sempre di ritenersi superiori agli altri uomini e di spargere dolore, come se in noi stessi non ne avessimo già abbastanza, tornando a una dimensione esistenziale più autentica e serena. So che la mia verità è dolorosa e impopolare, dura da accettare, persino mortale, ma trovo che per un uomo sia molto più dignitoso morire consapevole che vivere nell’incoscienza, nell’ignoranza, producendo solamente una sterminata quantità di disastri senza rimedio. Se tutti gli uomini fossero come me, su questa terra non scorrerebbe più sangue. Certo, il genere umano si estinguerebbe nel giro di poche generazioni, ma senza drammi e senza dolore, in modo dignitoso e pacifico. Perché non potrebbe essere questo il nostro scopo?
– Credo che tu ti sia rassegnato troppo presto, Giosuè, e che troppo presto ti sia nascosto dal mondo.
– L’età anagrafica non conta, sarebbe troppo semplice. Spiritualmente mi sento un centenario e sono stanco, stanco di vivere in un permanente stato di insoddisfazione, stanco di scrivere senza ricevere il benché minimo riconoscimento. Non è lontano il giorno in cui deporrò la penna e intorno a me calerà un silenzio assoluto. È questa la conclusione naturale della mia esperienza letteraria, anche perché, tutto sommato, posso ritenermi soddisfatto di quello che ho creato, anche se non lo leggerà mai nessuno oltre te e qualche altro amico. Ho sempre nutrito ambizioni troppo grandi, che andavano ben al di là delle mie effettive qualità, e non solo nella scrittura, ma in ogni altra cosa. Inizio ad avere il sospetto che anche le mie siano semplici braccia strappate alla terra. Forse avrei dovuto capirlo tanto tempo fa.
– Non dire stupidaggini, Giosuè. Tu vali molto, come scrittore e come uomo, molto più di quanto credi. Se tutti fossero come te il mondo sarebbe davvero un posto migliore, ma non per il tuo nichilismo. È vero, sei una notte, ma una notte in cui brillano innumerevoli stelle. Hai ancora tanto da dare, ma non devi nasconderti, devi lasciare al mondo l’opportunità di darti una chance. Non sappiamo cosa ci riserverà la vita e da parte tua sarebbe una colpa imperdonabile isolarti, rinchiuderti, condannarti quando hai ancora così tanto tempo davanti a te. Te lo dice una persona che a diciannove anni aveva deciso di uccidersi, non dimenticarlo.
Lo avevo dimenticato e provai un profondo imbarazzo. L’esperienza esistenziale di Veronica valeva molto più della mia, era segnata dal dramma, da una sofferenza vera e poi dalla rinascita, dalla resurrezione e dalla generazione di una nuova vita. Cos’ero io davanti a lei? Un insetto o poco più, dalla vita costellata di fallimenti (sì, erano i fallimenti le sole stelle che vedevo brillare nel mio firmamento). Cambiai discorso e le domandai del suo lavoro, della sua passione per la luce.
– Sono sempre stata affascinata dalla luce, sin da bambina. Lo trovo un elemento rassicurante e fantastico. Una piccola luce può cambiare completamente l’atmosfera di un luogo, valorizzarlo, renderlo davvero magico. E poi è incredibile quanto studio richieda un elemento così intangibile, impalpabile. È un po’ come la musica: l’effetto indefinibile è il risultato di un lavoro preciso, minuzioso, matematico.
– Inoltre ti rispecchia, rappresenta ciò che sei. Tu stessa sei una fonte di luce purissima e salutare.
– A questo non avevo mai pensato, – disse Veronica ridendo. Le sue risate erano musica per me, una musica misteriosa, proveniente da un altro mondo, migliore di questo, ricco e sereno, dove tutto era luce, calma e piacere.
Mi parlò dei progetti che le avevano dato maggiori soddisfazioni e mi rivelò come amasse illuminare soprattutto gli interni.
– Illuminare una stanza è come illuminare una persona. In sostanza, faccio ciò che vorresti fare con i tuoi testi. La luce dona un’anima all’ambiente, oppure la rivela.
– È quello che hai fatto con me, mi hai illuminato e mostrato cose che non avevo mai visto, di cui ignoravo l’esistenza.
– La cosa è reciproca. C’è una profonda comprensione dell’altro alla base del nostro rapporto. Tu mi hai guardata come nessun altro prima, hai visto aspetti della mia persona invisibili agli altri e, in alcuni casi, invisibili persino a me stessa. Hai questo dono, Giosuè, e sarebbe un delitto non sfruttarlo.
– No, Veronica, non ho alcun dono. Non avrei visto nulla se tu non me lo avessi permesso, e io ti ringrazio di aver avuto così tanta fiducia in me, una fiducia persino disarmante. Sei tu che hai reso possibile tutto questo. È come se leggendo i miei testi avessi già compreso tutto.
Essere solo con Veronica, starle accanto, poterla osservare, parlarle mi dava una sensazione di benessere, fisico e spirituale, mai provata prima. Nessuna persona mi aveva mai fatto così bene, davvero. Mi sentivo leggero, spensierato, giovane, innocuo, per me stesso e per gli altri.
– La tua presenza è benefica e consolante come il sonno, – dissi lanciandole un sguardo pieno di gratitudine.
– È un modo carino per dirmi che ti annoio? – domandò Veronica, con ironia.
– Affatto. Prima di conoscerti il sonno era l’unica consolazione che mi restava. La tua esistenza e, soprattutto, la tua presenza qui, in questa auto, al mio fianco, ha del miracoloso.
– Vale anche per me. In questi mesi mi sono domandata molte volte se tu esistessi davvero oppure no, se il nostro rapporto non fosse frutto della mia immaginazione. Se non ci fosse stato il matrimonio di Pietro ci saremmo incontrati lo stesso, perché vederti, conoscerti di persona, guardarti negli occhi, parlarti era diventata una necessità impellente per me, quasi fisiologica. Non volevo che il nostro rapporto venisse relegato esclusivamente a una dimensione ideale e immaginaria, e so che per te era la stessa cosa.
– Sì, non incontrarti sarebbe stato uno dei rimpianti più grandi e dolorosi della mia vita. Conviverci sarebbe stata una vera e propria impresa.
Passammo in auto quasi un’ora e mezza e mi sembrarono cinque minuti. Eravamo partiti da Roma al tramonto e arrivammo a Nettuno calata la sera. Lasciai Veronica in albergo e andai a casa, per fare una doccia e cambiarmi. Dopo mezzora ero di nuovo da lei, libero finalmente da quel vestito scomodo che mi rendeva ancora più impacciato e goffo. La attesi per un quarto d’ora, fumando un paio di sigarette e ripensando a ciò che ci eravamo detti durante la giornata, ma senza stilare un bilancio: c’era ancora tempo per noi e la sera e il mare, dove avevo intenzione di portarla, avrebbero reso tutto ancora più solenne ed elegante. Il momento dell’addio si avvicinava, ma non ci pensavo. Volevo godermi quelle ore in compagnia di Veronica e soffocavo sul nascere i cattivi pensieri. Che al termine della serata dovessimo dirci addio non aveva alcuna importanza. La sola cosa che contava era il piacere che avrei ricavato dalla compagnia di Veronica, quella donna ideale di cui avevo immaginato l’esistenza nelle ore più buie della mia vita e che non credevo potesse esistere davvero.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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